L’elettrochimico della Valnerina

 In Fabbriche Dismesse

Inserito in un paesaggio naturale di pregio, lo stabilimento di Papigno, sorto nel 1901, fu il principale impianto della “Società Italiana del Carburo di Calcio Acetilene e altri Gas”, costituita a Roma il 2 maggio 1896, che concentrò in questo impianto la produzione di carburo e costruì nell’area, nel 1911, una grande centrale, nella quale fece convergere tutte le concessioni idriche della società.
L’energia non utilizzata nei processi elettrochimici veniva venduta.
Il carburo di calcio era una sostanza chimica largamente impiegata nel campo della illuminazione, pubblica e privata, a mezzo di gas acetilene. Lo stabilimento di Papigno godeva di due principali punti di forza, la disponibilità di energia elettrica derivata dai fiumi Nera e Velino e il calcare estratto dal monte S. Angelo, immediatamente adiacente ai suoi edifici.
Alla produzione di carburo di calcio si aggiunse nel 1907 quella della calciocianamide, un fertilizzante utilizzato in agricoltura derivato dal carburo. La domanda di carburo, purtroppo, decrebbe negli anni successivi per la comparsa sul mercato di altre società concorrenziali che furono in grado di praticare prezzi competitivi, con un aggravamento della già precaria situazione gestionale dello Stabilimento.
Un primo tentativo di salvare la Carburo consistette nella vendita di alcune aziende consociate, ma ulteriori peggioramenti della situazione costrinsero, nel 1922, la SICCAG a lasciarsi assorbire dalla Società Terni (SAFFAT).

La politica della nuova impresa, denominata “Terni Società per l’Industria e l’Elettricità”, di ristrutturazione del vecchio impianto della Carburo lasciò in esercizio forni trifasi da 5.000 Kw e 7.000 Kw ed una batteria di otto forni da 1.000 kW.

Nel 1930 la capacità produttiva aveva una consistenza di 100.000 t/anno di carburo e 85.000 t/anno di cianamide, compatibile con un buon indice di economia di scala. Con l’inizio delle operazioni belliche degli anni quaranta e l’entrata in guerra dell’Italia si palesarono forti difficoltà di rifornimento di carbone e la produzione fu radicalmente ridimensionata fino alla sospensione del 1944 indotta anche dai bombardamenti e dalle predazioni operate dalle truppe tedesche in ritirata.
La ripresa produttiva del 1945 si dovette confrontare con una crescente crisi del mercato del carburo e della cianamide, che ebbe uno dei suoi momenti di picco negli anni Sessanta.
Il 6 dicembre 1962, l’espropriazione del settore elettrico a seguito della promulgazione della legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, inflisse un altro colpo decisivo, tanto che nel 1964 lo stabilimento fu soccorso dalla grande e magnanima mano dello Stato, attraverso l’acquisizione da parte della Terni Industrie Chimiche, già del gruppo FINSIDER, per poi passare nel 1967 ad un altro ente “di soccorso”, l’ENI.
Nonostante l’enorme bisogno di fertilizzanti chimici ad uso delle risaie e nonostante un prezzo di vendita ancora piuttosto concorrenziale, lo stato scelse di favorire l’omologo settore chimico francese e nel 1973 fu decisa la chiusura definitiva dello Stabilimento Elettrochimico di Papigno.

Fino a metà anni ottanta rimase in funzione il reparto per la produzione di ossigeno ed idrogeno gestito dalla Terni Siderurgica ad uso del fabbisogno interno della stessa. L’area (105.450 mq di cui 34.500 coperti) era divisa tra l’Ente nazionale idrocarburi e l’Ente nazionale elettricità. La prima è acquisita al patrimonio comunale nel 1997.
La fabbrica oggi, vicina alla Cascata delle Marmore, si configura come una unità spaziale funzionale autosufficiente, e costituisce uno dei grandi esempi di archeologia industriale presenti nel nostro Paese.

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